Carlo Emilio Gadda e Primo Levi non si definivano scrittori. Nessuno dei due evidentemente riteneva la scrittura una professione. Scrivevano e basta, secondo l'ispirazione. Gadda, di professione ingegnere, si definiva scrivente e ha lasciato quasi tutte opere incompiute; diversi editori hanno affermato apertamente che oggi Gadda incontrerebbe molte difficoltà a pubblicare. Primo Levi, di professione chimico, ha scritto il primo romanzo d'invenzione, La chiave a stella, da pensionato e si definiva scrittore non scrittore.
Così Primo Levi, a circa sessant'anni, su La chiave a stella: "Questa è un po' la mia opera prima: quando ho scritto gli altri libri, avevo un'altra professione, facevo il chimico. Ma da un anno e mezzo scrivo soltanto. La chiave a stella è il mio primo lavoro professionale...".
I sessant'anni mi fanno venire in mente che pure Italo Svevo, di professione prima impiegato di banca poi imprenditore, mise mano al suo capolavoro, La coscienza di Zeno, quasi a quell'età e lo pubblicò dopo i sessanta appunto.
E parliamo di scrittori, se occorre sottolinearlo, fra i maggiori delle nostre Lettere. Perché rimarcare oggi queste osservazioni? Tutto questo va detto (e altro si potrebbe aggiungere) contro il mito della giovinezza primavera di bellezza, contro il mito della professione di scrittore intesa come carriera pari a quella che uno potrebbe fare nell'industria o nella finanza, da iniziarsi rigorosamente intorno ai trent'anni, altrimenti uno è vecchio e fallito (e ci piace a questo punto ricordare l'affetto che Beckett nutriva per il concetto di fallimento), e da protrarsi finché morte non sopraggiunga continuando a replicare se stessi in prodotti più o meno uguali, sfornando magari un titolo all'anno. Credo più nella creatività talvolta imprevedibile della natura che in quella forzata delle macchine e della produzione industriale.
"Le ho già detto quell'altra sera che per me ogni lavoro è come il primo amore: ma quella volta ho capito subito che era un amore impegnativo, uno di quelli che se uno ne viene fuori con tutte le penne vuol dire che è stato fortunato. Prima di incominciare ho passato una settimana a scuola, a lezione dagli ingegneri: erano sei, cinque indiani e uno dell'impresa; quattro ore al mattino col quaderno degli appunti e poi tutto il pomeriggio a studiarci su: perché era proprio come il lavoro del ragno, solo che i ragni nascono che il mestiere lo sanno già, e poi se cascano cascano dal basso e non si fanno gran che, anche perché loro il filo ce l'hanno incorporato. Del resto, dopo di questo lavoro che le sto raccontando, ogni volta che vedo un ragno nella sua ragnatela mi ritornano in mente i miei undicimila fili, anzi ventiduemila perché i cavi erano due, e mi sento un poco suo parente, specialmente quando tira vento." (La chiave a stella, 1978, Einaudi, Torino 2014, pagg 114-115);
"Beh sì, io questa debolezza ce l'ho: non è che mi tacchi di andare fino in India o in Alasca, ma se ho fatto un lavoro, per il bene o per il male, e non è troppo fuori mano, ogni tanto mi piace andarlo a trovare, come si fa con i parenti di età, e come faceva mio padre con i suoi lambicchi; così, se una festa non ho niente di meglio da fare, prendo su e vado. Quel traliccio che le dicevo, poi, lo vado a trovare volentieri, anche se è niente di speciale e fra tutti quelli che passano di lì non ce n'è uno che gli getti un occhio: perché è stato in sostanza il mio primo lavoro, e anche per via di quella ragazza che mi ero portato appresso." (pag 130);
"Io credo che gli uomini siano fatti come i gatti, e scusi se torno sui gatti ma è per via della professione. Se non sanno cosa fare, se non hanno topi da prendere, si graffiano tra di loro, scappano sui tetti, oppure si arrampicano sugli alberi e magari poi gnaulano perché non sono più buoni a scendere. Io credo proprio che per vivere contenti bisogna per forza avere qualche cosa da fare ma che non sia troppo facile; oppure qualche cosa da desiderare, ma non un desiderio così per aria, qualche cosa che uno abbia la speranza di arrivarci." (pag 144).
"Beh sì, io questa debolezza ce l'ho: non è che mi tacchi di andare fino in India o in Alasca, ma se ho fatto un lavoro, per il bene o per il male, e non è troppo fuori mano, ogni tanto mi piace andarlo a trovare, come si fa con i parenti di età, e come faceva mio padre con i suoi lambicchi; così, se una festa non ho niente di meglio da fare, prendo su e vado. Quel traliccio che le dicevo, poi, lo vado a trovare volentieri, anche se è niente di speciale e fra tutti quelli che passano di lì non ce n'è uno che gli getti un occhio: perché è stato in sostanza il mio primo lavoro, e anche per via di quella ragazza che mi ero portato appresso." (pag 130);
"Io credo che gli uomini siano fatti come i gatti, e scusi se torno sui gatti ma è per via della professione. Se non sanno cosa fare, se non hanno topi da prendere, si graffiano tra di loro, scappano sui tetti, oppure si arrampicano sugli alberi e magari poi gnaulano perché non sono più buoni a scendere. Io credo proprio che per vivere contenti bisogna per forza avere qualche cosa da fare ma che non sia troppo facile; oppure qualche cosa da desiderare, ma non un desiderio così per aria, qualche cosa che uno abbia la speranza di arrivarci." (pag 144).
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