domenica 24 aprile 2016

Perché Luigi Di Ruscio e Mariano Bargellini?

Perché ho intervistato e mi sono occupata in diverse occasioni di due autori arrivati fino a tarda età pressoché ignorati nelle vesti di prosatori, come Luigi Di Ruscio* e Mariano Bargellini*? Perché mi sono parsi subito degni di nota, fin da quando mi sono imbattuta nei loro testi. In quest'epoca di restaurazione mi è parso più interessante valorizzare autori estremisti, forse eccessivi nel loro anticonformismo, piuttosto che l'aurea mediocritas.
Luigi Di Ruscio per i suoi romanzi assai poco romanzeschi, secondo le sue stesse parole: per le sue iscrizioni o historiae del presente esposte in forma trasgressiva, volutamente sgrammaticata e portatrice della voce degli oppressi.

Mariano Bargellini per gli aspetti immaginativo e linguistico propri del suo stile. L’immaginazione è ricca e ampiamente sviluppata nei suoi romanzi e racconti, ritenendosi l’autore stesso erede del genere fantastico (o della fantascienza italiana alla Landolfi). L’aspetto linguistico è quello che meriterebbe maggiore attenzione poiché è complesso, dichiaratamente barocco o neobarocco che dir si voglia, tuttavia applicato a materiali persino ultramoderni a volte, comunque strettamente imparentati con la nostra vita ora e qui. Si crea dunque un contrasto interessante nell’accostamento fra la ricerca e la parziale riproduzione dell’italiano ricco e sonante della tradizione più illustre (fra i maestri: Leopardi, Manganelli, vari autori del Seicento) e alcuni caratteri della contemporaneità come la realtà virtuale, i media e così via.

Qualcuno ha accusato Bargellini di preziosismo, preziosismo proprio di secoli ormai lontani, e di eccessiva polemica nei confronti della letteratura contemporanea. A questo proposito si potrebbe citare una frase di Goytisolo tratta da un’intervista di Massimo Rizzante (nel volume Un dialogo infinito, Effigie 2015): “… tradizione e modernità non sono nozioni opposte. Nella nostra epoca, in cui la maggior parte delle persone vegeta in uno stato di analfabetismo letterario, gli scrittori più coraggiosi, come alberi nel deserto che attraverso le loro radici si aprono un passaggio sotterraneo nelle profondità della terra, cercano altre culture e altre epoche storiche per nutrirsi.” (pag 155).
Il lavoro di Bargellini mi pare da salvare come tentativo di opporsi, di non adattarsi all’omologazione forzata degli stili. E’ vero, il suo riferimento al Seicento è forse fuori tempo massimo, forse sterile e privo di seguaci; tuttavia ricerche in qualche modo neobarocche si sono viste anche in altri autori viventi, pur essendo ognuna di queste ricerche indipendente e personale, che piacciano o no: penso a Mariano Baino, Gaetano Delli Santi, forse anche Francesco Permunian. E mi conforta il critico Omar Calabrese nel suo celebre Caos e bellezza (Domus edizioni, Milano 1991) quando definisce appunto neobarocche certe forme che altri definiscono postmoderne.
Paradossalmente, facendo un discorso molto generale, ritengo più rivoluzionario il Seicento per esempio dell’Ottocento. Il Seicento è stato il secolo dello sfondamento dei confini dell’universo, dell’idea che se ne aveva, secolo influenzato da Galileo Galilei e Giordano Bruno.
L’Ottocento è il secolo che ci viene imposto come principale riferimento culturale nell’attuale restaurazione successiva alle innovazioni e al grande dinamismo del Novecento. L’onnipervasivo positivismo cui siamo sottomessi (principale responsabile: l’attuale mito della scienza e della tecnica inutilmente attaccato da Heidegger; dietro a questo mito ovviamente c’è un’ideologia e una politica) si traduce, mi pare, in letteratura nella forma oggi così diffusa del narratore onnisciente, del racconto in terza persona, dell’oggettiva descrizione dei fatti. Se c’è qualcosa che dovrebbe ritenersi improponibile ormai è questa pretesa, questa presunzione di oggettività, imparzialità.
Se qualcuno è allergico al barocco, io dichiaro la mia allergia a un certo reazionario recupero di forme ottocentesche, per esempio quella  del narratore onnisciente, sociologo o fotografo della realtà. Senza aver nulla contro la sociologia o l’antropologia, materie anzi di per sé massimamente interessanti, non credo che la letteratura debba averne una dipendenza così diretta e totale come alcuni invece dimostrano di credere.

Il conformismo cui oggi uno scrittore deve ribellarsi quindi, a mio avviso, è la gabbia di un vetusto schema narrativo positivistico, imposta per bloccare ogni spirito ribelle, ogni anelito di noi figli del Novecento.


* Mi riferisco in particolare ai romanzi Cristi polverizzati di Luigi Di Ruscio (Le Lettere, Firenze 2010) e Giocare a mangiarsi di Mariano Bargellini (Effigie, Milano 2015).

Nessun commento: